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SCENEGGIATURE / REGIE

Scrivo da quel confine dove la psicologia incontra la filosofia, e dove l’urgenza umana si fa materia scenica. Il mio è un teatro umanista, inquieto, che non parla dell’“uomo” in astratto, ma dell’essere umano come campo di forze, come nodo di contraddizioni, come coscienza in cerca di sé attraverso l’altro. È uno spazio di transfert continuo. I personaggi non sono mai semplici identità, ma specchi, ombre junghiane, resistenze, proiezioni. I dialoghi sono armi per duelli psichici, in cui l’inconscio fa irruzione sotto forma di gesto, lapsus, o desiderio non detto. Ogni scena è un rituale di attraversamento: i personaggi sono costretti a confrontarsi con ciò che non vogliono sapere di sé.

Chi siamo, quando non sappiamo più chi siamo?
Non cerco di spiegare: cerco di tenere aperta la domanda. Il mio è un pensiero che si incarna. Un filosofare attraverso la carne, la voce, il silenzio.

Al centro di tutto: l’incontro. Con l’altro, o con se stessi. Non come lieto fine, ma come rischio. Perché l’altro non è mai rassicurante: è il passaggio obbligato per accedere a una parte dimenticata di sé.

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